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Temaki e Anarchia: intervista allo street artist PinoVolpino

In mezzo a piazza Sempione a Roma, abbandonata nel traffico, c’è una madonnina. Lo sguardo perso, ha le braccia aperte come se fosse confusa sul da farsi, mentre alle sue spalle la chiesa dei Santi Angeli Custodi custodisce dall’alto uno dei quartieri più particolari della capitale, Montesacro. Sulle mura tutto intorno alla piazza, throw-up di ragazzi delle medie e street art di artisti conosciuti si alternano in un’unica sceneggiatura di vite scritta a spray e stencil. Sto andando a pranzo al sushi qui accanto e proprio mentre passo vicino alla madonnina, vedo un piccolo maiale, gli occhi sgranati, tenuto al guinzaglio da un ragazzo con il cappuccio alzato e la mascherina: una citazione a Bansky ma in versione romana. È uno degli ultimi poster stradali di PinoVolpino, e se non lo conoscete, manca poco: è qui davanti al sushi che ci aspetta.

La performance di Piazza Sempione

È la prima volta che vedo Pino ed è una bella emozione: seguo la scena street romana fin da piccolo ed ho vissuto sempre con una certa gioia i primi incontri con un performer ad un raduno, in una jam o magari ad un sushi vicino a una madonnina confusa.

“Accendo il registratore, intervista iniziata”

Sono già venti minuti che parliamo ma ok, ce la faremo

Siamo partiti leggeri io e PinoVolpino, tetaki e hosomaki al salmone, parla in un flusso di coscienza ininterrotto senza quasi toccare cibo per quanto è preso a ricordare eventi, luoghi, persone.

“Cominciamo dall’inizio. Come nasce PinoVolpino?”

“A scuola: già da piccolo sentivo un trasporto eccezionale per il mondo dell’arte, ma tra i dubbi miei e quelli dei miei genitori scelsi un istituto professionale per avere un futuro più “solido”. Anni dopo cominciai a lavorare nel mondo teatrale come Light Designer. Dopo una serie di problemi di salute dovetti lasciare tutto e fu una bella batosta: mi ripresi proprio quando decisi di seguire la mia passione. Aprii un profilo Instagram dove caricavo foto dei miei quadri con accanto il mio cane, Pino, un volpino. Un po’ per timidezza, un po’ per insicurezza, decisi di chiamare il profilo PinoVolpino, senza espormi. Qualche tempo dopo, durante una mia mostra, l’organizzatrice dell’evento mi chiamò al microfono presentandomi come PinoVolpino. Da lì, decisi di tenere il nome e mettermi in gioco in prima persona, spostando la mia attenzione dal contesto casalingo con il mio cane a quello urbano”

“Una cosa che vorrei approfondire è proprio questa: l’importanza del contesto nelle tue opere. Il rapporto tra performance e città è essenziale per te giusto?”

“È partito tutto a Bologna, credo. C’era questo street artist, Pino Boresta, che girava per la città attaccando in giro sticker con la sua faccia mentre faceva una linguaccia. Praticamente creava dei “percorsi guidati”, una specie di caccia al tesoro dove seguendo questi sticker ti portava in luoghi particolari, inaspettati. All’epoca pensai “che fico” ma non mi ero ancora neanche lontanamente immaginato come street artist. Anni dopo, con l’esperienza del teatro finita, iniziai il mio percorso nel contesto urban e proprio lì cominciai a cercare quella stessa impronta: sinergia tra ambiente e passante. Il rapporto tra opera e città per me è essenziale e credo che una influenzi l’altra.”

“Come vivi il rapporto tra arte e illegalità delle tue opere?”

“Semplicemente sento di agire fuori dalla logica comune, commerciale o legale. La vedo come una ribellione molto intima, che possono capire in pochi: un introspezione sociale. Mi ricordo ancora un saggio che lessi alle superiori,  T.A.Z., di Hakim Bey: è lì che scoprii di essere un po’ anarchico. E così nello spazio e nel tempo che decido di ritagliarmi per me, per le mie opere, riesco a scegliere di non andare da un gallerista e implorarlo di espormi: vado a Villa Carpegna (tra Roma Ovest e il Centro della capitale n.d.r.), scelgo il tabellone del comune che mi piace di più e ci appiccico la mia ribellione, viva e colorata”

PinoVolpino parla spedito ma non sta mangiando; parla con gli occhi che brillano ma i camerieri lo stanno odiando, mentre i piatti pieni gli si cominciano a impilare davanti.

Si è dimenticato di mangiare, forse neanche gli interessa: ha tutta una passione affamata dentro che nessun uramaki riesce a saziare.

Come si evolvono e si adattano l’arte di Pino
e le sue critiche sociali grazie al contesto urbano

“Hai parlato di ribellione intima. Collegato proprio a questo tuo lato emotivo, spesso nel il tuo lavoro noto come un altalena in bilico tra espressione dell’io, dell’ego, e completa depersonalizzazione, disinteresse del sé. Quale delle due parti senti prevalere nella tua arte?”

Credo di essere proprio questo: contemporaneamente ego e assenza di ego. Sento il bisogno di esprimermi e lo faccio fuori dai vincoli sociali, ma allo stesso tempo non me la prendo se mi copri un manifesto con un tag, non mi faccio problemi a regalare quadri, o a poggiarli all’aria aperta vicino a un secchio dell’immondizia se sento che il loro posto è lì. Anzi: spesso non mi preoccupo di che fine farà quello che faccio: quello che sento è il bisogno di esprimermi, neanche tanto di essere capito.”

“Un leitmotiv delle tue performance sono gli occhi, spalancati e minimal, e gli animali, spesso mucche, maiali. Hanno un significato particolare?”

“Gli occhi forse a significare tutto quello che voglio buttare fuori, cosa voglio vedere e far vedere a te che osservi. Gli animali invece li utilizzo quasi come fossero dei contenitori del mio istinto. Poi ognuno ci legge quello che vuole, ma l’importante credo sia non caricare troppo di significato quello che faccio, o almeno non al primo sguardo. Utilizzo la carta nelle mie opere anche per esprimere questa leggerezza e anzi, questo mi aiuta a definire il concetto di “arte a strati” che ti sto spiegando. Ti faccio un esempio; qualche tempo fa ho fatto un grande murales con degli orsi polari persi in una savana deserta. Tu, fermo in fila in auto, puoi vedere di primo impatto gli orsi, diseganti tutti carini e simpatici, o puoi vedere la critica ecologica, senza però che io abbia sottolineato in nessun modo la questione con slogan o scritte. Sei libero di interpretare il murales proprio come lo ero io mentre lo realizzavo.”

Il Logo di Pino

“Cominciano a chiudere o ci cacciano. Impegno sociale, ci abbiamo girato tanto intorno ma è un tuo tema ricorrente. A modo tuo cosa fai per salvare il mondo?”

“Eh. Principalmente mi impegno nell’ambito sanitario, facendo da volontario in situazioni particolari, un po’ al limite, anche se è un discorso molto privato di cui preferisco non parlare. Dal punto di vista artistico invece, guardando i ragazzi che sono partiti dalle mie stesse condizioni, ieri come oggi, sento come una responsabilità, un dovere. Vorrei iniziare un percorso proprio per supportare i sogni di questi ragazzi, trasmettere quello che so alle generazioni successive alla mia: una necessità che mi è venuta crescendo e che adesso sento matura”

“Ultima domanda: caffè?”

“Caffè”

Posiamo le tazzine e ci alziamo. Alla cassa ci danno due biscotti della fortuna: li scartiamo mentre andiamo al parcheggio di Piazza Sempione. Ci salutiamo proprio davanti la madonnina, con i biglietti dei biscotti ancora in mano. Mentre torno a casa per trascrivere questa intervista passo all’angolo del Corso e getto lo sguardo verso il poster di Pino, quello con il maiale al guinzaglio. La pioggia ha cominciato il suo dovere e i bordi sono già mezzi squagliati.

È così che ci sentiamo un po’ tutti no? Un idea dai contorni indefiniti: siamo tutti mezzi squagliati.

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